S.OTTONE FRANGIPANE

PREFAZIONE

SANT'OTTONE FRANGIPANE
Fin dal primo giorno che la Provvidenza mi sposò a questa nobile Chiesa Arianese io l’amai di cuore, come doveva: amai la sposa, amai i figli, amai i loro beni spirituali, che d’allora in poi divenivano anche miei.

Fra questi io stimava qual prezioso tesoro la storia della vita e geste del nostro principal patrono S. Ottone; e ne andai in cerca immediatamenre. Ma dev’essere cosa molto rara, ché solo a capo di quattro anni mi è riuscito di avere le Memorie di S. Ottone stampate a Roma nel 1780.

L’anonimo autore di esse (che può essere l’Abate Potenza, come pare potersi ricavare dal Vitale, in una nota delle Memorie degli Uomini Illustri di Ariano) seguendo il giudizio critico dei Bollandisti, rigetta come apocrifa l’Autobiografia di S. Ottone; perché, scritta per adulazione e vanità non prima del Secolo XVI, è piena di anacronismi, inverisimiglianze, errori e falsità.

Rigetta egualmente tutto ciò che da sì torbida fonte hanno attinto il Barberio, il Ciarlandi, lo Zazzera, il Ferrari, l’Ughelli ed il Capozzi. Ammette al contrario come sinceri ed autorevoli monumenti tanto l’antico Uffizio di S. Ottone composto nel secolo XII o al più tardi nel principio del XIII: quanto la testimonianza di Pietro Diacono, quella di Eriberto Rosweido, e la lettera di Alfonso I.

Ora per colmare il dispiacevole vuoto che nella nostra Diocesi da tanto tempo esiste, di una vita popolare del suo santo Patrono, mi è sembrato che bastasse dalle suddette Memorie raccogliere quanto vi ha di certo, di verosimile e di sodamente probabile: ed ho fatto questo piccolo lavoro, che ora alla buona e senza alcuna pretensione presento al pubblico.

In ciò fare mi son proposto di compiere un dovere episcopale, sia col :rendere un servigio di non poca utilità al diletto mio popolo, sia col dare un attestato di fede, di fiducia, di amore a S. Ottone.

Di questa mia poca fatica avrò largo compenso, ottenendo, come spero, che la memoria ed il culto del Santo sia ravvivato nella Diocesi, e che la valida protezione di Lui efficacemente si spieghi anche sopra di me.

E perché potesse quest’operetta diffondersi per la Diocesi, ed esser letta da tutti con edificazione, ho procurato che fosse del tutto popolare: quindi dettato semplice e facile, volume piccolo, edizione di poco costo e molte copie.

Ora non mi resta che pregare Dio, affinché questo piccolo ma prezioso seme, che per me si sparge ne’ solchi della buona terra di questa Diocesi possa con la benedizione di Lui fruttificare e produrre il cento per uno.

Ariano il 1. Giugno 1892                                   Andrea d’Agostino Vescovo di Ariano

I. ORIGINE E NASCITA DI OTTONE

Dal Panvino, accurato scrittore di quanto riguarda la famiglia Frangipane, abbiamo che l’antica e nobile famiglia Anicia da Roma si propagò per l’Italia e fuori nel secolo nono dell’era cristiana. Dal primo ramo venne su a Firenze la famiglia Elisea, nominata poi Alighieri gloriosa per aver dato al mondo il sommo poeta cristiano Dante; il secondo formò a Venezia la famiglia Micheli; degli altri due uno fiorì a Napoli e l’altro in Dalmazia. Lo stipite poi della famiglia Anicia rimasta a Roma trovasi nel secolo undecimo designato col soprannome di Frangipane; e si mostra potente e valoroso, giusto e devoto al sommo Pastore, sostenendo i diritti della Santa Sede, e dando in sua casa sicuro asilo ad Urbano II, perseguitato dall’Antipapa Clemente III. Gentilizio nome di questo nobile casato era quello di Ottone, portato da molti dei Frangipane; ma il più illustre di questi Ottoni, anzi dei Frangipane tutti quanti, fu certamente il nostro caro Santo. Il quale nacque a Roma prima della metà del decimo primo secolo, e probabilmente nell’anno di grazia 1040.

II. EDUCAZIONE

Chi ha vaghezza di conoscere l’educazione ricevuta da Ottone nella sua prima età, per ammirare l’alba di quella grande virtù destinata a crescer sempre fino a sfolgorare come sole in pieno merigio, e ne interroga la Storia; questa laconicamente gli risponde che fin dall’infanzia Ottone fu dedito al digiuno ed alla elemosina. Brevissima risposta e monca in apparenza; ma sufficiente per chi la sa meditare.

La mortificazione di se stesso e la beneficenza verso gli altri non si reggono in fatti da se stesse; ma necessariamente suppongono il fondamento di altre virtù. Quindi i digiuni e le elemosine di quel benedetto fanciullo sono indizio sicuro e segno certo, che nell’animo di lui era viva la fede delle cose invisibili, sodamente fondata la speranza delle celesti ed eterne ricompense, fervido l’amore per Dio e per gli uomini, grande l’umiltà e pronta l’ubbidienza alla legge ed ai consigli evangelici.

Tanto e si belle virtù che si ammirano nella prima età di Ottone non sono forse un chiaro e forte argomento dell’indole sua generosa, della grazia di Dio abbondante, e della savia educazione ricevuta? Oh! felici educatori che trovarono la vera e pura semenza dell’educazione, ed una terra cosi atta a riceverla e farla fruttare!

Guardando a traverso la distanza e l’oscurità de’ secoli, a me sembra fra gli educatori di Ottone discernere una bella figura di donna più celeste che terrena, la figura di una madre non mondana ma cristiana, la quale seppe amare il suo figlio da vero ed educano in guisa da farne un grand’uomo, un santo.

III. MILIZIA

Progenie di eroi, all’età di quattro lustri Ottone ci apparisce ornato del cingolo militare, e pronto ad entrare coraggiosamente in battaglia. E non è straordinaria che a vent’anni si aspiri alla vita del campo ed al mestiere delle armi. Ma non tutti quelli che impugnano le armi con ardore, e le maneggiano con forza, abilità e fortuna sono eroi: l’eroismo innanzi tutto e sopra tutto dipende dalla giustizia della causa e dalla nobiltà dello scopo.

Quindi è che coloro i quali la forza, l’ardimento e l’abilità guerriera spiegano in favore dell’iniquità e dell’ingiustizia debbono ritenersi non valorosi eroi, ancorché fortunati; ma per briganti e ladroni; terribile flagello dell’umanità.

Al contrario il glorioso nome di eroe non conviene, se rettamente si giudica., che al valoroso, il quale e la forza e il coraggio e l’arte militare esclusivamente consacra al sostegno ed al trionfo della giustizia e del diritto. E tal era Ottone, che dai suoi maggiori attinto avea col sangue il vero valore, né l’occasione di darne luminosa prova si fece lungamente aspettare.

Fra quelli che nel secolo XI combattevano il principato romano e la Chiesa,da una parte erano i tirannelli di Tuscolo, che a forza di prepotenze, di danaro e d’intrighi, tentavano ed alle fiate riuscivano ad inceppare la libertà della Chiesa, sia nell’elezione dei suoi Pontefici, sia nell’esercizio della sua duplice potestà spirituale e temporale: dall’altra parte erano i tiranni Tedeschi, che usurpavano il potere dell’investiture, nominavano Antipapi, dilaceravano il seno della Chiesa, e poi scendevano a devastare l’Italia.

La guerra, ch’era perciò inevitabile, scoppiò ben presto, ed Ottone tosto scese in campo, pronto a dare non solo il sudore, ma anche il sangue, la libertà e la vita per la patria sua e per la Chiesa cattolica. Non sappiamo però se egli si unì ai Normanni per combattere i Tuscolani, sotto il pontificato di Nicola II. nel 1058-59; o pure con i Toscani nel 1062 combatté l’Antipapa Cadolao, che sostenuto da Enrico IV, levate avea le armi contro il pontefice legittimo Alessandro II.

IV. PRIGIONIA

In uno dei primi combattimenti l’ardimentoso giovane con alcuni altri suoi compagni è preso dai nemici, e carico di catene vien gettato nel fondo di una oscura torre, esposto alla fame, al freddo ed ai maltrattamenti d’ogni sorte, che quei crudeli gli fanno spietatamente soffrire.

Non so che cosa di Ottone penseranno coloro che degli uomini e delle cose sogliono giudicare non dalla moralità, ma dal successo e dall’esito.

Non sanno questi utilitarii, che l’esito felice ed infelice delle cose che si avvicendano nel tempo, che il successo e l’insuccesso delle umane azioni servono nelle mani della Provvidenza a formare l’intreccio ed il nodo del dramma della vita; e non a determinarne la riuscita. Quando poi arriva la fine di questo dramma importante, e nella catastrofe della morte sparisce l’intreccio e si scioglie il nodo, allora ha luogo il giudizio della riuscita finale: allora non mancherà certamente né la ricompensa alla virtù, né il .castigo al vizio.

Intanto la dura porta di quella prigione dopo un certo tempo si apre per i compagni di Ottone, e si richiude più pesante su di lui! Per quelli fu offerto ed accettato il riscatto; mentre per Ottone la storia non dice se il riscatto non fu offerto, o pure non venne accettato. Ma quale che in questo fatto fosse l’ignoranza, l’impotenza o la malizia degli uomini, Iddio certamente non lo permise che per cavarne un bene maggiore.

Da quello che poi segui noi possiamo giudicare, che la Provvidenza voleva provare la virtù di Ottone, temprarne l’animo a maggior forza, aumentarne il merito, e la vita tutta indirizzare a mèta più gloriosa: essa voleva che in quella tomba rimanesse interamente morto e sepolto l’uomo del mondo, e che ne uscisse in vece un uomo tutto celeste.

V. LIBERAZIONE MIRACOLOSA

Nel fondo del cuore di Ottone risuonar dovevano queste belle parole di Salomone: Dio de’padri miei, e Signore di misericordia, il quale tutte le cose facesti per mezzo di tua parola, e di tua sapienza ornasti l’uomo; affinché fosse signore delle creature fatte da Te; e affinché governasse il mondo con equità e giustizia, e con animo retto rendesse ragione: dammi quella sapienza che assiste al tuo trono, e non mi rigettare dal numero de’ tuoi figlioli (Sap. 9). Fu esaudito, e la sapienza scese con lui nella fossa, e tra le catene nol dimenticò (Sap. 10). Da essa illuminato e consolato, ai divini voleri si rassegnava, e con eroica sapienza soffriva quella durissima prigionia; dalla quale umanamente parlando non vedeva scampo alcuno.

La rassegnazione però e la pazienza non lo rendevano insensibile alla pena di quello stato infelice, né gli smorzavano in petto l’ardente desiderio della libertà. Egli bramava di potere liberamente mirare il creato, per glorificare il Creatore; bramava di esser libero della sua persona e degli atti suoi, a fine di avvicinarsi ai sacramenti e da essi attingere la grazia del Salvatore; bramava esser libero, per assistere alle assemblee dei fedeli e con essi celebrare le solennità della Chiesa; bramava la libertà per andare a vedere coi suoi occhi la vita edificante de’ Santi, e seguirli da presso per la via della perfezione, che conduce al regno de’ cieli.

Perciò con gran fiducia, con pie lagrime, con caldo affetto non cessa di pregare cosi: O Signore Gesù unigenito Figliuolo di Dio, se a Te piace, io Ti supplico di non lasciarmi più a lungo in queste tenebre ove sono di tante tue grazie privo, ma cavami dalle angustie di questo carcere, affinchè il santo tuo Nome io possa lodare e benedire.

Tranquillamente dormiva una notte abbandonato nelle braccia di Dio, quando sfolgorante di luce gli apparisce un cittadino del Cielo, che gli dice : Non temere, Ottone, perché esaudita è appo Dio la tua preghiera; ed ascolta quello che alla tua salvezza conviene. Rinunzia al mondo ed al mestiere delle armi, e prendi la via della perfezione. Dalla celeste visione scosso, si desta, e meravigliato va ripensando a quanto ha visto ed udito; ma riputandolo un semplice sogno si addormenta di nuovo. Ritorna allora S. Leonardo, e tutto addormentato come lo trova dolcemente lo trasporta in un bosco presso Roma, ed ivi sull’erba lo depone.

Nello svegliarsi, trovandosi in quel sito, dové Ottone a somiglianza di Pietro esclamare: Adesso so che il Signore ha mandato il suo Santo, e mi ha tratto dalle mani dei miei nemici. Diede poscia un colpo di pietra sulle sue catene, che divenute per virtù divina fragili come vetro caddero infrante; ed egli ne andò tutto libero e franco.

VI. PELLEGRINAGGIO

Miracolosamente liberato dalla prigionia e dai ceppi, quasi uomo risorto, cominciò Ottone una nuova vita: una vita da pellegrino che durò più mezzo secolo! Vita che il mondo non sa, né può apprezzare, quantunque abbia anch’esso i suoi pellegrini ed i suoi pellegrinaggi. I pellegrini del mondo viaggiano per sodisfare la curiosità ed evitare la noia della vita loro ed oziosa, viaggiano per vile interesse e per gloria vana, viaggia per tessere intrighi e per gabbare i gonzi, viaggiano per spogliare i semplici ed opprimere i deboli; viaggiano per fuggire la vendetta della giustizia umana, viaggiano per non sentire il rimorso della loro stessa coscienza. Per questi ed altri somiglianti motivi viaggiano i pellegrini mondani; e per il mondo ha lodi lusinghiere o almeno rispettoso silenzio, riservando il biasimo e l’irrisione ai pellegrini cristiani. Questi però tengono i giudizi del mondo in quel conto che meritano, in conto cioè di stoltezza, di malignità e d’ignoranza!

Chi poi non è del mondo ed ha lo Spirito di Dio comprende le parole che S.. Paolo scriveva agli Ebrei (cap. lI): Per la fede, quegli che è chiamato Abrahamo, ubbidì per andare al luogo che doveva ricevere in eredità; e partì senza sapere dove andasse. Per la fede stette pellegrino nella terra promessa non sua, abitando sotto le tende con Isacco e Giacobbe coeredi della promessa. Imperocché aspettava quella città ben fondata: della quale è Dio stesso stesso architetto ed edificatore... Nella fede morirono tutti questi senza aver conseguito le promesse, ma da lungi mirandole e salutandole, e confessando di essere ospiti e pellegrini sopra la terra. Imperocché quelli che cosi parlano dimostrano che cercano la patria. E se avessero conservata memoria di quella ond’erano usciti, avevan certamente il tempo di ritornarvi; ma ad una migliore essi anelavano, cioé alla celeste. Per questo non ha Dio rossore di chiamarsi loro Dio, conciosiaché preparata aveva per essi la Città.

Or come ad Abramo, cosi disse il Signore ad Ottone: Parti dalla terra, e dalla tua parentela, e dalla casa del padre tuo, e vieni nella terra che io t’insegnerò (Gen. 12) cammina alla mia presenza e sii perfetto (Gen. 17). E Ottone ubbidiente alla voce di Dio, si leva, esce dal bosco ov’era stato miracolosamente portato, sconosciuto e senza fermarvisi traversa Roma, e per sempre abbandona ricchezze ed onori, commodi e piaceri, parenti ed amici, patria e mondo: tutto egli abbandona, per mostrare anche di fuori l’interna disposizione dell’anima, che non ha qui patria permanente, ma cerca la futura; e perché la sua conversazione fosse tutta nel Cielo.

Egli è un danno che non possiamo neppure col pensiero seguire la traccia del lunghissimo suo pellegrinaggio, perché cancellato dal corso di otto secoli; e quindi contentar ci dobbiamo di dare solo uno sguardo alle poche e leggiere vestigie rimaste. Da esse argomentar si può che il pellegrino rivolse divoti i suoi passi in que’ luoghi dove o il Salvatore del mondo conversò con gli uomini, o fiorì la vita de’ Santi, o la potenza ammirabile di Dio si manifestò con prodigii, o la pietà più fervida si distingueva nel culto dovuto al Signore, o più fecondo era il campo di meriti per l’eternità, o più illustre erano le scuole di perfezione de’ monastici istituti.

VII. OTTONE ALLA BADIA DI CAVA

Una di tali illustri scuole di santità e di perfezione era indubbiamente quella che l’istituto Benedettino fondata aveva alla SS. Trinità di Cava de’ Tirreni; alla testa della quale era l’Abate S. Pietro. Vi andò Ottone, portatovi dal desiderio dell’altissima ed utilissima scienza de’ Santi, ed in quell’Abate trovò un amoroso ed accurato maestro. Il quale non solo mentre visse prese cura del diletto suo discepolo, ma anche dopo la morte scendeva dal Cielo frequentemente per istruirlo e condurlo alla più alta perfezione. Questo fatto mirabile si legge nella Vita di S. Pietro Abate, la quale si conserva nell’archivio di quella Badia.

E probabile che stando colà vestì Ottone l’abito religioso e professò l’Istituto Benedettino, la cui regola egli osservò con tanta esattezza, che S. Benedetto ne fece lodevole menzione in quella apparizione, che Pietro Diacono racconta nel suo libro De inventione, et Miraculis S. Benedicii. In un combattimento seguito in Puglia, un soldato fatto prigioniero e stretto fra’ ceppi, fu chiuso in un sotterraneo dove orribilmente soffriva. Ispirato dall’alto, pieno di fiducia si rivolge per soccorso a S. Benedetto; che apparendogli tosto lo libera, e poi gli dice: Per la tua liberazione va sollecitamente a ringraziare Dio a Montecasino; ma le catene onde fosti avvinto, che ti sarebbero d’impedimento in si lungo viaggio, sospendi al sepolcro di Frate Ottone il Rinchiuso; il quale ha la mia regola perfettamente osservata.

Durante il tempo di sua dimora a Cava si occupò Ottone nel lavoro manuale, sia perché dalla regola prescritto, sia per sdebitarsi in qualche modo della ospitalità che riceveva, non volendo mangiar il pane altrui gratuitamente. E poiché gli fu affidato l’ufficio di Vestarario, egli prendeva cura delle vesti dei Religiosi; e probabilmente non solo le conservava e le distribuiva ma le cuciva e rattoppava al bisogno. Sogliono i Santi a preferenza amare le occupazioni più basse e più penose; e ritengono come benedizione del cielo il poter rendere un servigio al prossimo per amore di Dio.

VIII. OTTONE A MONTEVERGINE

U nobile giovinetto Vercellese, sullo scorcio del secolo XI, non compiuto ancora il terzo lustro, cominciò la sua vita di pellegrino recandosi a Compostella accompagnato dalla pietà e dalla mortificazione. Appena poi è di ritorno in patria da questo primo pellegrinaggio, vuol muovere verso l’oriente per venerarvi il Santo Sepolcro del Signore; ma destinato da Dio a santificare ed illustrare l’Italia non solamente con l’edificazione della vita e coll’operazione dei miracoli, ma con l’istituzione altresì di una nuova comunità religiosa, mille ostacoli sorgono ad impedirgli il passo fuori d’Italia.

Fatto allora di necessità virtù, si determina ad abbracciare la vita eremitica : e va successivamente a nascondersi in diversi luoghi alpestri e solitarii a fine di non essere disturbato dal suo intimo conversare con Dio; ma neppur questo gli riesce secondo il suo desiderio. Imperocché la luce dei miracoli, la fama delle virtù e l’odore della santità di lui da ogni parte gli attirarono ammiratori, clienti e discepoli.

Tra tanti non fu l’ultimo Ottone che andasse a visitare Guglielmo, e lo trovò su quel monte Appennino della nostra provincia Irpina, il quale intorno a quel tempo mutò il nome di Virgilio in quello della Vergine, e quindi in poi si chiamò Montevergine. Su quel monte dovea sorgere il celebre santuario della gran Madre di Dio ed il monastero principale della Congregazione Virginiana fondata dal santo Vercellese: ma tali superbi edifizii non esistevano ancora colà quando Guglielmo ed Ottone vi s ‘incontrarono.

Ben volentieri direi le circostanze di quell’incontro se mi fossero note; ma probabilmente nessuno ne fu testimone, eccetto Dio e gli Angeli del Signore. E questi soli sarebbero in grado di dirci dove precisamente e quando e come i due Santi s’incontrarono, di quanta luce sfavillarono quegli occhi e quelle menti, di quanta letizia furono inondati quei cuori, di quanto ardore si accesero quelle anime, e di quanta edificazione scambievole furono piene le loro persone.

Dopo un certo tempo, di cui ci è ignota la durata, riprese Ottone il cammino verso Ariano; ove poi giunto e dimorandovi, chi sa quante volte rivolse gli occhi a Montevergine ed il cuore al santo suo amico.

IX. ESERCIZIO DI BENEFICENZA IN ARIANO

In Ariano dovea aver termine il pellegrinaggio di Ottone: ed egli vi giunse una decina di anni prima di morire, quindi più che settuagenario. Fermò quivi la sua residenza, perché gli piacque questo luogo, destinato a divenire il più fortunato teatro delle sue virtù, il venerabile sepolcro del suo corpo, la sorgente inesauribile di grazie e di favori per sempre.

Quivi fu più splendida e completa la manifestazione del terzo aspetto di Ottone; che noi abbiamo già ammirato come soldato e pellegrino, ed ora ammireremo come benefattore dell’umanità sofferente.

Veramente non fece mai in lui difetto la beneficenza, che anzi a somiglianza di Giobbe egli poteva dire: Dall’infanzia meco crebbe la misericordia, e meco uscì dal sen di mia madre. Benefico in fatti ei fu bambino con le elemosine da lui distribuite ai poverelli; benefico giovine sotto le armi, che egli volgeva alla difesa del diritto e della giustizia, al bene della patria e della Chiesa; benefico nel corso del lungo suo pellegrinaggio, perché da per tutto era passato edificando con la virtù e sollevando co’ suoi servigi. Ma nell’ultimo stadio di sua vita ed in mezzo al popolo, di cui dovea esser modello protettore e padre, apparisce nel più caro e bello aspetto, in quello di uomo caritatevole e benefico; e ciò non senza un alto disegno della Provvidenza, che con sì perfetto suggello voleva indelebilmente imprimere negli Arianesi la forma divina della beneficenza.

Gioverebbe non poco se la beneficenza di Ottone si potesse esattamente disegnare e con vivi colori dipingere; ma per riuscirvi farebbe d’uopo l’assistenza di quegli Arianesi, che nel secolo XII ebbero la fortuna di vederlo, di conversare con lui, e di ammirare le sue opere d’industriosa e magnanima carità in favore dei poveri di Gesù Cristo. A me piacerebbe udire da loro il racconto dell’impressione che fece nel popolo l’arrivo ma- spettato di quel vecchio forestiere; che vestito di una tunica bianca stretta alla vita da una cintura di cuoio, e coverto d’un ruvido mantello nero, umile e modesto si avanzava; e pur ispirava riverenza non tanto per la canuta barba quanto per la grande virtù che traspariva dalla gravità del portamento, dalla soavità dei modi e dalla dolcezza delle parole. E quanto sarei grato a chi m’indicasse il sito e la forma dell’ospizio da Ottone aperto in Ariano per accogliervi i pellegrini, a chi mi mostrasse un mobile un utensile di cui egli si serviva nell’esercizio della beneficenza!

Non è difficile immaginare di quanta edificazione riuscir dovesse per gli Arianesi l’esempio della carità di Ottone. Il quale al comparire d’un povero pellegrino, sollecito correvagli incontro per menarselo a casa; ove si metteva a lavargli i piedi, porgergli il ristoro di cibo e di bevanda, preparargli il letto pel riposo, e con rispetto, amore e tenerezza prodigargli ogni sorta di servigi, perché dalla fede illuminato in quel povero vedeva il suo Signore Gesù. Quantunque ignota fosse agli Arianesi la condizione di quel forestiere,che a nessuno erasi manifestato per un patrizio romano, pure si accorgevano che egli non era un uomo del volgo; e perciò ogni di più cresceva la loro meraviglia nel vederlo sì tenero verso degli altri e sì duro verso se stesso; nel vederlo impiegare le sue mani nell’umile mestiero di ciabattino,sottoporre le spalle al peso del fardello di legne che porta dal bosco e del vaso d’acqua che reca dal fonte; nel vederlo alla fine della laboriosa giornata dare una brev’ora di riposo all’affaticato e logoro suo corpo sulla nuda terra.Tanto può la grazia di Dio corroborare la fiacca natura dell’uomo! Tanto diversa dalla filantropia è la carità cristiana!

Per tre anni vide Ariano questo spettacolo ammirabile di edificazione, e per tre anni assistè a questa chiara ed eloquente predicazione di carità e di beneficenza. Or chi può credere che tutto ciò riuscisse infruttuoso? Certo nessuno che non voglia fare gratuita ingiuria ad una città così cristiana; la quale non avrebbe potuto dirsi divota di Ottone, nè meritarne la protezione se non avesse stimate ed imitate le virtù di lui. Quindi è che io ritengo che molti Arianesi si diedero allora ad imitare la beneficenza di Ottone, che molti si unirono a lui per aiutarlo nel caritatevole ufficio, e che alcuni almeno ebbero caro prendere nell’ospizio dei pellegrini il posto del santo il dì chequesti si ritirò nel romitorio di S. Pietro.

X. VITA EREMITICA A S. PIETRO

Alle falde meridionali del monte su cui siede Ariano, ed alla distanza di tre quarti di miglio dalle mura della città era a tempo di Ottone ed è tuttavia un chiesa campestre dedicata al Principe degli Apostoli. A lato di essa si fece Ottone una piccola cella; e vi si chiuse a fine di prepararsi alla morte con aumento di austerità. Ivi prolungando le vigilie, diminuendo lo scarsissimo cibo e battendo il suo corpo con un flagello composto di sessanta strisce di cuoio, si esercita nella mortificazione della carne: ivi lo spirito purifica con abbondanti lagrime, orna col merito di frequenti atti di virtù, e corrobora con l’orazione e la contemplazione del giudizio di Dio e i della prossima morte, che di continuo gli ricorda la fossa a questo fine con sue mani scavatasi nella stessa cella: ivi malgrado tanta mortificazione ed orazione va muovergli guerra il nemico infernale, che visibilmente gli si presenta in aspetto orridamente brutto e minaccioso; ma egli lo mette in fuga col potente segno della croce.

Con l’acquisto di meriti senza numero, durò sei o sette anni questa non vita ma crudel agonia, nella quale ei si teneva fermo e costante per compiere la volontà del Padre celeste, e per imitare in quel modo che poteva la passione di Gesù Cristo. Giova però notare che questa penosa e lunghissima agonia era di tanto interrotta e compensata da ineffabili dolcezze di paradiso; le quali provenivano ora dalle vittorie sul Demonio, ora dalle celesti visioni e dalla promessa del premio eterno, ed ora dall’amore di Dio, nel quale tutta si liquifaceva l’anima sua.

Non conosce punto i Santi chi crede, che fra i tormenti di quell’agonia e fra le dolcezze di quell’estasi non sia più capace Ottone di far bene al suo prossimo; infatti è morto a tutto Ottone in quella romita cella, fuorché alla beneficenza. E se maravigliato alcuno domanda che cosa può colà dare ottone, quand’egli è privo di tutto, anche della forza per lavorare; io rispondo ch’egli può molto, perché ha un cuore capace di amare e volere il bene altrui; io rispondo ch’egli può tutto, perché quando i Santi non hanno più nulla sulla terra, il Signore apre loro i tesori del cielo. Quindi è che il Rinchiuso di S. Pietro non solo consola ed aiuta con gli esempi della santità, coi consigli della sapienza e con le fervide preghiere; ma soccorre altresì i bisognosi mercè l’Onnipotenza di Dio messa nelle mani di lui.

Per esempio, si presenta a lui un giovine cieco, ed ei gli dà la vista con un semplice segno di croce. Quantunque ostinata nella sua perfidia ricorre ad Ottone una donna Giudea, e gli domanda la vista del corpo, senza rimaner delusa nella sua speranza. Oppressa da febbre ribelle ad ogni rimedio un’altra donna raccomandasi alle preghiere del Santo Recluso; il quale prega ed essa è lasciata immediatamente libera dalla febbre.

Un falconiere di Giordano, conte di Ariano, con poco rispetto pel luogo sacro, se ne andò a caccia innanzi la Chiesa di S. Pietro; e per prendere uno sparviero, che sordo alla sua voce, nè correre voleva alla preda, nè fare a lui ritorno, ma posato se ne stava sulla cella di Ottone; ardì disturbare l’orazione del Santo, scalando con fracasso quel tetto. In punizione di tanta temerità la preghiera del Santo ottiene da Dio, che lo sparviero nell’istante d’esser preso apra le ali al volo e vada ad appiattarsi lontano. Dopo tre giorni di faticose e diligenti, ma inutili ricerche, temendo lo sdegno del Conte e pentito finalmente del suo fallo, si decide il falconiere ad implorare l’aiuto del Santo Romito; il quale gli dice: Va tosto al fonte di S. Pietro, l troverai l’uccello che si lava, ed appena ti avrà scorto verrà da se stesso a posarsi tranquillo sul tuo pugno. Andò con fiducia il falconiere; e come aveva detto Ottone così tutto avvenne. Tanto il castigo, quanto la grazia che contiene questo fatto miracoloso eran ordinati al bene di quell’uomo irreligioso e rozzo; poiché con i castighi mirano i Santi alla correzione dei colpevoli, non mai alla vendetta delle ingiurie fatte alla loro persona.

Il Conte Giordano confessò pubblicamente, aver anch’egli sperimentata la virtù dei prodigii in Ottone. Il quale per indurre quel prepotente a desistere da un reo proposito un dì gli disse: Se prometti di rinunziare al cattivo progetto che hai nell’animo, io ti rivelerò la causa occulta ditale tuo pensiero. Promise il Conte e con alta meraviglia si convinse della virtù che aveva Ottone di leggere i più secreti pensieri dell’anima altrui.

XI. MORTE

Poco prima della morte del suddetto conte Giordano, che avvenne nel 1127, passò dal tempo all’eternità l’anima santa di Ottone. La longevità di questo Santo, che malgrado la straordinaria sua mortificazione visse circa 85 anni, prova di due cose l’una; o che la mortificazione cristiana non è tanto nociva alla sanità ed alla vita dell’uomo quanto alcuni pretendono, o che Iddio, quanto lo crede espediente, con soprannaturale virtù la debolezza della natura corrobora di chi fida in Lui.

E’ per l’uomo virtuoso un guadagno la morte, la quale costituisce il ponte di passaggio dalla vita miserabile della terra alla vita gloriosa e beata del cielo; fu perciò giorno di festa per Ottone quello in cui l’anima sua benedetta si sciolse finalmente dai legami del corpo mortale ed andò a Dio. A una tal morte preziosa, avvenuta principalmente per effetto di ardente desiderio ed amore di Cristo noi daremo il nome di transito; perché fu il felice passaggio dall’esilio alla patria, dal dolore al gaudio, dal combattimento al trionfo, dalla terra al Cielo.

XII. CULTO

Vigeva ancora nel secolo dodicesimo l’antica forma di procedura nella beatificazione dei Santi, perciò ben tosto, anzi immediatamente dopo la morte, si cominciò a venerar Ottone con culto religioso nella Diocesi di Ariano.

Poiché a celebrare la gloria che egli meritato si aveva con le eroiche sue virtù, Cielo e terra si unirono in un magnifico accordo. Il Cielo con una catena di splendidi prodigii, che cominciati durante la vita del Santo non cessarono con la morte, ma si continuarono nel corso dei secoli; e la terra col concorso delle genti al sepolcro venerabile, con le laudi e le feste, con le suppliche fiduciose nella potente intercessione e finalmente coll’unanime acclamazione del popolo Arianese, che scelse Ottone per suo patrono principale.

In fatti appena sparsa la notizia della morte del santo e benefico Recluso tutta la città si commuove, i testimoni delle sue virtù con ammirazione ne encomiano la vita, i beneficati con riconoscenza raccontano le grazie ed i favori da lui ricevuti, tutti con lagrime miste di dolore e di gaudio rimpiangono la perdita da loro fatta sulla terra e si rallegrano della gloria da lui acquistata in cielo. Ed ecco popolo e clero correre al romitorio di S. Pietro, accalcarsi dentro e d’intorno la cella per mirare il corpo del loro generoso benefattore, del loro amato padre. Poi lo cavano da quella specie di tomba, in cui vivente era stato come sepolto per tanti anni; lo posano su di un carro ornato ed in processione trionfale lo menano in città alla chiesa cattedrale; ove il vescovo lo riceve e colloca in un posto di onore.

Abbiamo ancora un antico uffizio che si recitava nelle feste di questo Santo: uffizio composto nello stesso secolo duodecimo o al più tardi nei primi anni del tredicesimo prima che il sacro corpo fosse portato a Benevento.

Come e quando poi il culto reso al nostro Beato uscì fuori della Diocesi Arianese e si estese fino a Roma, non sapremmo dirlo. Ma da Eriberto Rosweido, erudito ed esatto raccoglitore degli Atti sinceri dei Santi e molto stimato dai Bollandisti, sappiamo che a tempo suo aveva S. Ottone un altare ed una immagine a Roma nella Chiesa dei Santi Martino e Silvestro ai Monti. Anche il Vitale, nelle Memorie degli Uomini Illustri di Ariano, attesta il culto reso ad Ottone in Roma, nella cappella gentilizia, che i Frangipane hanno nella Chiesa di S. Marcello. Finalmente dalle Memorie di S. Ottone, stampate a Roma nel secolo passato, rileviamo che questo Santo è venerato e festeggiato a Castelbottaccio, nella Diocesi di Larino, che a Napoli trovavansi allora delle sue antiche immagini, e che dalla Confraternita di S. Filippo Neri di Bologna era annovverato tra i Santi protettori di ogni mese.

XIII. TRASLAZIONE DELLE RELIQUIE

Circa l’anno 1220 i Saraceni di Federico I! devastavano la Puglia, ed empiamente profanavano quanto di più sacro aveva la Religione. La vicinanza del pericolo suscitò una tempesta di contrarii affetti in cuore agli Arianesi a causa delle preziose Reliquie del venerato e amato loro Patrono. Poiché ritenerle in Ariano esposte al non lontano pericolo di profanazione sembrava loro grandissima imprudenza mandarle altrove per metterle in salvo era come uno strapparsi il cuori dal petto. Deliberarono a lungo, ed infine il partito della prudenza prevalendo si decisero, a malincuore però, di trasportarle a Benevento, per metterle in salvo dentro la cerchia di quelle fortissime mure.

Ma la fiducia posta né Beneventani costò agli Arianesi ben cara; perché passò il pericolo, si successero generazioni, ed essi non potevano ricuperare il sacro deposito, per due lunghi secoli reclamato in vano. L’amore e l’odio altrui per le cose sacre riusciva loro egualmente fatale; ed essi per evitare Scilla erano andati incontro a Cariddi.

Finalmente nel 1452 Alfonso I re di Napoli prendendo a petto la causa degli Arianesi, che ardentemente desideravano la restituzione del prezioso loro tesoro, con pressante lettera prega il Cardinal Cerdano di volere e col Papa Niccolò V, e coll’Arcivescovo di Benevento Giacomo della Ratta, efficacemente trattare della restituzione del Corpo del B. Ottone alla chiesa di Ariano, come cosa reclamata e dalla giustizia e dalla pietà. Non mancò il Cardinale di compiere premurosamente l’incarico; ed ebbe il piacere di vedere la sua mediazione coronata da felice successo.

Dopo circa 230 anni le Sacre Reliquie di S. Ottone faveano ritorno in Ariano; ed immaginare si può quantunque non detto dalla storia, con- quanta festa andasse ad incontrarle il popolo, a riceverle e a riportarle alla Cattedrale. Silenzio più dispiacevole e di maggior danno è quello che la storia intorno al luogo dove la maggior parte delle ricuperate Reliquie fu posta. Quindi abbiamo la mortificazione e la pena d’ignorare dov’è che esse ora sono nascoste.

Da due secoli almeno nel tesoro della cattedrale non si vede delle Reliquie di S.Ottone che un braccio, chiuso in un reliquiario di argento. E le altre? Non può dirsi che siano rimaste a Benevento; sia perché il Ciacconio in modo assoluto scrive, che il Cardinal Cerdano riusci nell’impresa; sia perché il Capozzi dice nella sua Cronaca di Ariano che l’intero corpo del santo fu trasferito da Benevento e collocato in una magnifica cappella ha chiesa Cattedrale; sia finalmente perché nel catalogo sinodale delle reliquie possedute dalla chiesa di Benevento,fatto dal Cardinal Orsini, non sono punto annoverate quelle di S. Ottone.

A Castelbottaccio in provincia di Molise e diocesi di Larino si celebra la festa di S.Ottone e si pretende che il corpo di lui stia sepolto e nascosto nella loro chiesa matrice. Ma questa asserzione non ha altro fondamento che una vaga tradizione popolare; con tre versioni diverse. La prima dice che il corpo di S. Ottone trovasi a Castelbottaccio, colà trafugato, senza che si sappia nè come né quando, e senza che in Ariano rimanesse traccia di questo furto; e questo è inverosimile. La seconda pretende che S. Ottone non morì ad Ariano, ma a Castelbottaccio, ove fuggendo da Ariano si era ricoverato. La terza crede che S. Ottone morì a Castelbottaccio, ove recato si era nel 1178 per assistere alla consacrazione di quella Chiesa. Ma queste due ultime versioni contraddicono a ciò che la storia afferma intorno al tempo ed al luogo della morte del Santo; e quindi non si possono ammettere.

A Castelbottaccio da due secoli almeno si venera il dito anulare di S.Ottone, ma senza autentica. Di questo Santo, che hanno scelto anch’essi per Protettore, fanno ogni anno due feste. Una minore il 15 Aprile in memoria di un miracolo non specificato; ed una maggiore solennissima il 31 luglio. E quando nell’occasione di questa seconda festività a Castelbottaccio si trova un Arianese, in testimonianza di affetto fra le due popolazioni devote di S. Ottone, gli si fa il donativo di Carlini sei (L. 2,55) e l’onore di portare alla solenne processione la croce di argento. Se poi sono due, al secondo si fa lo stesso donativo, e l’onore di portare lo stendardo o pure la statua del Santo Patrono.

Più probabile a me sembra che le Sacre Reliquie di S. Ottone debbano stare là dove il Capozzi dice che furono riposte, quando furono traslate da Benevento; cioé in quella cappella della Cattedrale che è dedicata al Santo Patrono.Per timore appunto di qualche rapimento pensarono occultarle,. mettendole sotto terra e più convenientemente sotto l’altare.

XIV. MIRACOLI

Della gran moltitudine di miracoli e grazie ottenuti da quelli che in tutti i tempi ricorsero a S. Ottone pochi in verità sono specificatamente noti. Sappiamo però che molti al suo sepolcro ottennero la guarigione da infermità e malattie d’ogni sorte, che molti furono da lui liberati dalle infestazioni diaboliche. Sappiamo che nel 1528 allontanò dalla città la pestilenza, che nel 1590 la preservò dall’incendio, che s’era appiccato nella sacristia della Cattedrale, che nel 1648 tenne lungi da essa i terribili mali dei rivolgimenti politici e della guerra civile.

Essendo una fiata la città assediata dai Saraceni, comparve S. Ottone in mezzo ad una oscura nuvola gravida di tempesta, e mostrandosi minaccioso agli assedianti li atterri e con una grandine di pietre li mise in fuga. Anche oggi in Ariano si mostrano delle pietre, che una pia tradizione ritiene esser cadute allora dal cielo per la liberazione della città.

Fra le persone miracolosamente guarite da S. Ottone si annovera S. Elziario, conte e poi patrono anch’esso di Ariano. In tempo di epidemia era esso gravemente malato ed in pericolo di vita, quando il pio Ermengardo, suo genitore, fiduciosamente si rivolse a S. Ottone, e ne ottenne la guarigione del diletto suo figliuolo. In attestato poi della grazia ottenuta e della cordiale sua riconoscenza, fece il Conte splendidi donativi, cioé molti beni alla cattedrale per aumentare il numero dei ministri del culto del Santo

Patrono, ed il castello di S. Eleuterio alla sede episcopale. Questo fatto è narrato dal Barberio, come pure i due seguenti.

Nel 1558 venne dalla S. Sede spedito in Ariano qual Vicario Apostolico Pietro De Perris; il quale dubitando della legittimità del culto dato a S. Ottone ne fece togliere la statua dalla pubblica venerazione. Quando ecco la notte seguente è repentinamente preso da veementissima ambascia, che fieramente lo agita, e gli sembra di essere da gravi colpi di pesanti bastoni percosso Pensando allora, e non senza ragione, che ciò fosse un castigo della colpa commessa contro il culto di S. Ottone, manda tosto persone a rimettere a suo posto la statua veneranda, ed immantinente si sente libero da ogni affanno e da ogni dolore.

Simile cosa avvenne quindici anni dopo, cioé nel 1573, a Pietro Antonio Vicedomini, anch’esso Visitatore Apostolico in Ariano. Ignorando o non credendo ciò ch’era occorso al De Petris, fa per lo stesso motivo rimuovere dalla nicchia la statua del Santo, e ne riceve immediato e grave castigo. E’ un languore profondo che ribelle ad ogni rimedio, va ogni di più crescendo fino a fare del tutto disperare della guarigione. E pure completamente guarisce appena che viene da lui rivocato l’ordine dato,. con l’ingiunzione di rimettere al suo posto la statua del santo Patrono.

CONCLUSIONE

Non a pascere una vana curiosità, o a dare uno sterile piacere son destinate le vite dei Santi; ma per edificare le anime cristiane, eccitando in loro vera divozione; la quale principalmente consta di fiducia nella protezione dei Santi amici di Dio, d’imitazione delle loro splendide virtù, di onoranza ch’essi meritano e che i fedeli loro debbono.

Perciò prima di deporre questo piccolo libro, destinato ad accrescere e a perfezionare quella divozione che per S. Ottone da sette secoli nutrono in cuore gli Arianesi, ogni lettore in se stesso raccolto vada meditando quanta fiducia deve porre in questo Santo, come deve seguire con l’imitazione le tracce luminose delle virtù di Lui, e quale servigio ed onore deve tributargli.

Grande ed illimitata vuol essere la nostra fiducia in un Santo che Dio stesso ha scelto e destinato nostro avvocato, protettore e dispensatore delle sue grazie: in un Santo che sia vivente ancor sulla terra, sia regnante con Cristo in cielo ha con amore e zelo in nostro favore esercitato tal ufficio per sette secoli. Il passato ci è garante dell’avvenire. A Lui dunque con piena fiducia faremo ricorso per ottenere di essere liberati dalle tentazioni,dai pericoli,dalle miserie della vita e di essere forniti dei beni dell’anima e del corpo,tutto disponendo Egli ed ordinando al conseguimento dell’ultimo nostro fine, cioè della eterna beatitudine nella patria celeste.

Non meno grande ed esatta conviene che sia nei figli l’imitazione di un Padre sì perfetto; il quale con l’Apostolo Paolo, ci dice: Siate miei imitatori com’io di Cristo, combattendo per la giustizia, vivendo vita soprannaturale con aspirazione incessante al cielo, e beneficando tutti.

Valoroso campione della giustizia ci mostra il glorioso vessillo dell’invincibile costanza nel bene, intorno a cui si arruolano gli uomini di carattere e di onore; e c’impone di separarci dalla turba abietta dei vili; i quali dal razionalismo,dall’ateismo politico e dal liberalismo privati di carattere, di religioneie e di coscienza; legati da brutali passioni, da rispetto umano e da tirannia settaria; inetti a conoscere la verità, a praticare la virtù, a compiere il loro dovere; vigliaccamente prepotenti pel numero, a guisa gonfio e torbido torrente vanno precipitando prima nella barbarie e poi nella eterna perdizione.

Quest’ammirabile Pellegrino ci fa cenno di volgere con indignazione le spalle al pantano pestilenziale della corruzione, ove il naturalismo, il sensismo ed il materialismo hanno gettato scienze e lettere, arti e mestieri, scuole costumi del mondo moderno, ed ove i discendenti delle bestie, con gusti e tendenze bestiali, beatamente s’immergono: e c’invita a seguirlo su pel monte della virtù cristiana, a fine di respirarvi liberamente l’aria soprannaturale della grazia, e mirare più vicino il cielo, la vera patria dei credenti.

Prostrato a piedi dei poveri e servendoli con le sue mani, c‘insegna compiuti in onore del Santo Patrono nel sedicesimo e diciassettesimo secolo. In fatti nel Sec. XVI il Vescovo Niccolò Ippoliti collocava la statua del Santo in una delle nicchie della facciata della cattedrale. Il magistrato questo grande Benefattore quale beneficenza dobbiamo noi stimare, amare praticare. Non quella legale certamente, che con mezzi empii, iniqui, opprimenti toglie cento per dar uno ai poveri dopo un secolo di aspettazione e di struggimento: non quella settaria, che del soccorso temporale si serve per dannare eternamente l’anima: non quella mondana, che prende il nome di filantropia; la quale corre allegramente a divertirsi in un teatro a danzare in una festa da ballo con la scusa di apprestar ajuto ai miseri danneggiati da inondazioni, incendi, tremuoti e colera. No, non è questa beneficenza senza Dio, anzi nemica di Dio, che Egli c’insegna; ma quella che da Dio è comandata, che a Dio si riferisce, anzi a Dio stesso si fa nella persona dei poverelli. Questa con nome sacro chiamasi carità, ed è cosa tutta santa nel principio, nel fine e nei mezzi: essa nobiltà tanto chi la fa quanto chi degnamente la riceve, perché l’una e l’altro rappresentante di Dio: essa sola congiunge i cuori con la catena indissolubile dell’amore, dei benefici e della graditudine.

Ughelli loda lo zelo e la pietà degli antichi Arianesi nel rendere il dovuto onore alloro illustre Patrono; e l’Autore delle Memorie di S. Ottone che scriveva nel 1780, rende testimonianza, che fino a quel tempo tale zelo e pietà non era venuto mai meno; e nota alcuni atti della pietà Arianese, della città in tempo di penitenza prometteva dodici ducati annui; e cento venti anni dopo. nel 1648. aumentava il dono mutandolo in un ampio podere assegnato in dote alla cappella di S. Ottone.

L’anno 1579 il Vescovo Donato de Laurentiis otteneva da Gregorio XIII per l’altare del Santo Patrono l’indulgenza plenaria quotidiana in suffragio delle Anime purganti: in seguito di che i fedeli fecero legati per tremila Messe annue da celebrarsi a questo Altare privilegiato. Il secolo seguente vide per cura del Vescovo Ottavio Ridolfi onorarsi di pitture la cappella, ricco di marmi l’altare, e l’effigie di S. Ottone scolpita da egregia mano in finissimo marmo. Innanzi a questa faceva bella figura una magnifica lampada di argento, che il patrizio arianese Scipione Sebastiani, per gratidudine di scampato pericolo ad intercessione del Santo, vi sospese, con incarico agli eredi di tenerla sempre accesa, e col dono di dieci ducati annui.

Da quanto tempo la lampada, le pitture, i legati delle tremila messe più non esistono, io non so: ma so che stringe il cuore l’aspetto bujo, disadorno e freddo di quella venerabile cappella! Or se non siamo figli degeneri dei nostri maggiori, e se ancor vive in noi l’antica pietà e zelo per l’onore del nostro glorioso Patrono, conviene darne la prova col ristabilire il decoro e lo splendore della cappella a Lui dedicata. E per ciò ottenere un mezzo facilissimo sarebbe quello di spendere a questo nobilissimo scopo quel danaro, che molti sciupano in baldorie sotto pretesto di onorare il Santo. Non tutti capiranno questa parola, ma quelli ai quali è concesso dall’indole dell’animo più docile e più gentile, dall’educazione a civiltà e buon gusto, e specialmente dalla fede e grazia di Dio.

In onore di S. Ottone si celebrano in Ariano tre feste nel corso dell’anno. La prima il 23 Marzo, giorno di sua morte beata: un’altra più solenne la 2 ° Domenica dopo Pasqua; preceduta da Novena, in un giorno della quale si va in processione al romitorio di S. Pietro, ove il Santo da eremita passò gli ultimi anni di vita mortale: la terza finalmente fra l’Ottava dell’Assunta. Nel modo di celebrare queste feste chiaramente si distinguono i veri dai falsi devoti di S. Ottone; questi celebrandole in modo pagano, quelli in modo cristiano.Cristiana è la festa quando si ha raccoglimento di sensi, purificazione di coscienza, elevazione del cuore, santificazione dell’anima tutta quanta, mediante la predicazione della parola di Dio, la meditazione e la preghiera, la confessione e la comunione, la gala stessa e lo sfoggio ben ordinato di lumi, di fiori e di musica.

Paganizzano poi il culto cristiano coloro, che in occasione delle feste dei Santi Patroni, vanno in cerca di ciò che distrae l’animo, sodisfa i sensi ed eccita le passioni; e quindi non è meraviglia se questi falsi divoti la loro festa pagana finiscono nella dissoluzione, nello stravizzo, e nelle risse.

Or l’efficace protezione dei Santi non se la possono ragionevolmente aspettare i falsi divoti ma i veri; perciò a me piace finire con le belle parole del Manzoni, che al nostro caso fanno molto a proposito:

Lungi il grido e la tempesta                                            

Dei tripudii inverecondi,

L’allegrezza non è questa

Di che i giusti son giocondi;

Ma pacata come segno,

Ma celeste come pegno

Della gioia che verrà.

da FRAMMENTI raccolti da Lello Guardabascio -Politografica Ruggiero- luglio 1982



La grandine di pietre caduta dal cielo sopra i saraceni per intercessione di S. Ottone mentre assediavano Ariano

LE PIETRE DI S. OTO

di Vittorio D’Antuono

Poco è giunto fino a noi delle notizie riguardanti S. Ottone; le opinioni a riguardo sembrano essere alimentate più dalla fervida immaginazione dei fedeli e da un antico risovvenire popolare che da una rigorosa indagine storica.

E qui che storia e credenza popolare si fondono mirabilmente in un legame che a noi non spetta disgregare né tantomeno conoscere fino in fondo.

Nel viaggio verso la non dimenticanza, le voci remote, sopraffatte dall’ irriverente corso degli anni, percorrono la loro ascesa dai luoghi trascorsi dell’oblio; gonfiano i loro corni, ricomparendo in una muta processione alimentata da reminiscenze lustrali. Le nebbie dei tempi si diradano tanto da permetterci di scorgere, tra il pigro retrocedere delle brume, squarci di un paesaggio antico: gli anfratti delle vecchie mura, il castello, risvegliatosi dal suo sonno eterno, i vicoli, le viuzze fangose.

Un manipolo di saraceni in armi minaccia la distensione del luogo ed Ottone compare dall’alto delle mura compiendo il miracolo: il sole, mutilato dei suoi raggi scarlatti scompare dietro una spessa coltre di nubi.

Greve cade sui pagani aggressori una grande quantità di pietre nerastre, che, in lento inesorabile incalzare. spinge via i superstiti in cerca di riparo, giù per i frondosi valloni.

A tal proposito, nel 1596, Giovan Battista Capozzi, così ebbe a scrivere: “Si degno’ Iddio oprar molti miracoli per li meriti di questo Santo, e specialmente proteggendo la Città d’Ariano nelle sue necessità, particolarmente allor che li Saraceni venuti dalla Puglia chiamati dall’ Imperadore Federico assalendo la Città d’Ariano con numeroso esercito, il Popolo correndo dal Santo, a ciò pregasse Iddio, che li liberasse dalle mani di quei barbari.

Egli postosi in orazione nel suo Tugurio, incontenente s’oscurò il Cielo, e incominciò a piovere sopra quei barbari una gran tempesta di grossi sassi di varie forme, e di grave peso differenti di materia da altri naturali sassi, da questi vedendosi oppressi quei barbari, lasciarono l’assedio, e con precipitosa fuga si partirono.

Queste pietre si conservano sino al presente in detta Città d’Ariano, molte delle quali si vedono fabricate nelle mura delle Case al di fuori, e a vista publica, e molte altre dentro le abitazioni, per segno, e memoria del meracolo”.

Oggi, infatti, quando il sollecito viandante si avvia nell’intrico dei vicoli, scorge, tra il marciume delle calcinature e tra generazioni sovrapposte di edere intricate, gruppi di ciottoli nerastri volgere la loro accorata preghiera ad un cielo perlaceo di un nitore quasi evanescente.

In apparenza statici e silenziosi essi però sono non del tutto muti; all’ascoltatore attento e all’osservatore paziente sanno raccontare una vicenda antica che rivive nei coloriti racconti dei vecchi e nelle reminiscenze dei pochi, memori di una storia che valica i limiti temporali dell’uomo e che perdura con esso nella sua tradizione secolare e nella semplicità del suo vivere giornaliero.

Circa quattro secoli dopo il miracolo, nel XVII secolo, il vescovo Caiazza, avendo ricevuto da Fabio Barberio l’opera “De miraculosa lapidum pluvia instar grandinum adversus Saraceno?’ a lui dedicata come ci riferisce Tommaso Vitale, rese merito al Santo, celebrandone il prodigio con una lapide marmorea; imprigionata nella staticità della pietra, nella cappella di S. Ottone alla Cattedrale, la pristina epigrafe così recitava:

LAPIDAE CRANDINES

AB AERE DELAPSAE ADVERSUS SARACENOS

SANCTI OTHONI PRECIHUS

DUM ARIANO OBSEDERANT

Rifatta, ancora oggi eleva al cielo la sua prece e la si trova incastonata nelle mura perimetrali della Chiesetta del Crocifisso, insieme ad altre lapidi ed alle pietre di S. Oto.

Le suddette pietre, definite anche pietre panopee, ovoidali per forma ed irregolari per dimensioni, nell’immaginario collettivo sono la prova tangibile di un Santo non più “prutittore di li frastieri”, ma pastore e guida dei suoi fedeli.

In tempi più recenti, precisamente durante il terremoto del 1980, fra il polverone della terra sconvolta dal moto orrendo, qualcuno sostenne di aver visto il Santo Eremita sorreggere il campanile della Cattedrale per tutta la durata del movimento sismico. La torre campanaria, deturpata dalla macabra danza, rovinò al suolo soltanto dopo la fine del sisma...

E pensare che a Castelbottaccio, comune in provincia di Campobasso, in cui al pari della nostra città si venera S. Oto, si racconta che il nostro protettore, abbandonato il Tricolle, perché disgustato del comportamento degli Arianesi, e rifugiatosi nel suddetto paese, scaricò sugli stessi Arianesi che lo inseguivano per riportarlo indietro, un’abbondante quantità di pietre, costringendoli ad una precipitosa fuga.

Al di là dei numerosissimi aneddoti, ciò che risulta essere realmente importante è il profondo legame interiore che unisce noi Arianesi non solo alla nostra città ma anche ad un protettore sempre più sentito; legame alimentato da ricordi sovrapposti di generazioni differenti e temprato alla viva fiamma della fede popolare.

La storia non necessita di belle parole; essa rivive nei vicoli, nelle stradine, nelle piazze, nel vociare del volgo. dove il tutto si amalgama meravigliosamente nell’inchiostro di un libro ancora da scrivere.

Del resto, come sosteneva lo storico francese Patrice de la Tour du Pin: “i paesi senza più leggenda saranno destinati a morire di freddo”.

“GUIDA TURISTICA DI ARIANO CITTA’ CAPITALE” a cura di Mario e Ottaviano D’Antuono Tipografia IMPARA - giugno 2001-



S.LIBERATORE


san liberatore
Per antica e costante tradizione, sappiamo che S. Liberatore fu il primo Vescovo di Ariano, e questa tradizione è confermata da non pochi e dotti storici e anche dalla serie cronologica dei Vescovi di Ariano pubblicata da Monsignor Vescovo Lojacono, nel Sinodo Diocesano.

Se non è stato Vescovo residenziale, fu certamente uno dei regionali, quali si ebbero nei primi secoli della Chiesa, giusta un manoscritto, che è nella Biblioteca Vaticana.

Il culto di questo miracoloso Santo, nell’attuale Santuario, ove pose la sede di grazie e prodigi, rimonda a tempi immemorabili.

La chiesa, a lui dedicata, possedeva una larga zona di terreno, ma è stata usurpata; godeva alcune rendite, le quali, nel 1451, passarono alla sacrestia della Cattedrale e poi sono andate perdute.

Nel 1670, il Capitolo fece eseguire alcuni restauri.

L’arcidiacono Cela eresse a S. Liberatore, nella nostra cattedrale, un magnifico altare di marmo con nicchia e balaustra.

Il Vescovo D’Agostino gli consacrò un piccolo monumento insieme agli altri Patroni: S. Ottone, S. Elziario e S. Delfina, in lastra marmorea e cornice di metallo bronzato, rimpetto al cancello d’ingresso della Cattedrale.

Inoltre S. Liberatore è venerato a Benevento, che ne fa uffizio e messa, a Magliano Sabino, ove è protettore principale, a Sulmona, a Rieti, nel castello di Buccianico, ove era un convento a lui dedicato; nel Viterbese e forse pure altrove.

Questo culto è ora vivo nella Sicilia ed, in modo particolare a Messina, Gualtiere, Sicaminò e Lume; nella provincia di Perugia e nell’America.

Il Santuario sacro a questo miracoloso Santo è sito alle falde di Ariano, a 3 km. di distanza dalla città, sopra una piccola, amena ed incantevole collina, circondata da case coloniche, da frutteti, oliveti e da boschi rivestiti di rigoglioso verde.

Questo luogo è caro agli. Arianesi, perchè fu il teatro delle gesta dell’illustre Martire.

È uno spettacolo commovente vedere, nel giorno a lui sacro, processioni interminabili di fedeli, molti scalzi, grondanti sudore pel lungo camminò, pieni di polvere; e vanno carponi per terra, su quel suolo benedetto, bagnato dal sangue dell’eroe invitto, piangendo. gridando per implorare grazie, o per sciogliere il voto di favori ricevuti.

E queste folle di pellegrini, isolati o a gruppi, non vengono solamente d’Ariano, ma da paesi lontani e vicini: Bonito, Melito, Montecalvo, Apice, Grottaminarda, Mirabella, Greci, Savignano, Castelfranco.

Il culto di S. Liberatore, di anno in anno, assume maggiore incremento, tanto che nei giorni di festa, il Santuario, sebbene due volte ampliato, è sempre incapace di contenere i fedeli. Durante il mese di maggio non mancano, quasi ogni giorno, pellegrinaggi riboccanti di fede viva, di pietà sincera.

“GUIDA TURISTICA DI ARIANO CITTA’ CAPITALE” a cura di Mario e Ottaviano D’Antuono  - Tipografia IMPARA - giugno 2001