tratto dal blog lacod@delgatto di Luigi Gagliardi
Quando sei nato e sei rimasto fino a venti anni ad Ariano Irpino, rimani di Ariano Irpino qualsiasi cosa tu faccia in seguito: potrai vivere a Milano e parlare meneghino, fuggire a Londra, studiare a Bologna ma sarai sempre di Ariano Irpino. Nel mio personalissimo caso a Firenze un arianese resta tale seppur distante da anni e kilometri da casa e mai come oggi mi sono sentito diversamente identico a chi a lu paese invece c’è rimasto: ho incontrato un mio paesano che per nulla avrei salutato al paesello ma che invece da queste parti della Toscana con un sorriso, una stretta di mano e un “ma tu sei il fratello di…. ed hai frequentato il liceo…” mi ha fatto sentire sì un po’ più in Irpinia ma differente se non distaccato dai miei natali, che a distanza mi accorgo di smentire per alcuni atteggiamenti e per quel glossario che qui respingo per il modo con cui si vuole far incidere, far comprendere a forza ed imporre con arrogante forza la propria provenienza geograficamente culturale. “E si! Quella, mia sorella, “sta” qua”. La differenza tra Nord o meglio Centronord e Sud a volte è tutta nel predicato: “sta” come se qualcuno avesse preso la povera sorella e buttata sulle sponde dell’Arno a peso morto contro la sua volontà. “Sta qua” ed è proprio forse tutta qua la differenza/addizione d’essere/non essere arianesi migranti. Non è tanto che siamo diversi da casa nel luogo ove viviamo, in alcuni frangenti è proprio una questione lessicale. Se il linguaggio è suono di come rappresentiamo la vita, semplicemente capita di essere nella stessa tonalità ma un‘ottava sopra o una sotto. Molti ritengono sia una questione climatica che ci porta ad aprire le vocali come fanno i pugliesi o ad arcignare alcuni vocali: quando ad Ariano “faàce friddo” (giusto per rafforzare il senso del freddo pungente dei miei colli con quel friddo, che sa di ferro, tosto, battente ed algido) con le medesime temperature a Firenze “c’è freddolino” e, se mai capita una caduta sul quel friddo ghiaccio, ad Ariano Irpino “ssì caruto” (quasi come se Pulcinella schernisse lo scivolone goffo o se un giudice col dito puntato condannasse l’empia figuraccia) in Maremma “sei cascato ‘n terra” con un tono dismesso a provare grazia e pietà quasi come fosse stata la caduta della Carolina Kostner. Un discorso diverso merita l’orario: al Bar Sport vicino casa mia l’aperitivo è “all’una meno un quarto” mentre settecento chilometri più su al Rifrullo in Via di San Niccolò il bianchetto o la spuma è “a un tocco all’una”. Vuotato il calice i ragazzi tornano a casa, solo che ad Ariano Irpino si chiamano “wùaglioni” (come se fossero dei wùai, dei guai in gioventù dei loro genitori) mentre a Firenze sono i “figlioli”, proprio come se fossero davvero figli d’una madre e un padre. In fondo come la sorella di quel mio paesano “sta qua”, anche io che non sono più wuàglione sto qua a dare il suono alla vita, comprendendo che a volte migliorare le proprie vicende umane sia tutto un affare di come dare un suono alle parole e di come trattenere coi pugni chiusi in tasca quell’essere irpino che storicamente ha tenuto la mia terra isolata dal resto del progresso nazionale.