tratto dal blog lacod@delgatto di Luigi Gagliardi
Sono nato in Irpinia trent’anni fa, in un paese che allora contava oltre ventitremila abitanti tutti sparsi sulla schiena dell’Appennino tra la Puglia e il Sannio ma raccolti intorno la piazza del paese dal lastricato bianco e i gerani nelle fioriere. Dalle mie parti s’è devoti ad una triade di Santi e non perchè ci piacciano le feste patronali ma perchè se il voto resta inascoltato la prima volta c’è sempre il Santo di scorta che, se ci lascia inascoltati col desiderio stretto ancora tra i palmi delle mani in preghiera, allora potremo sempre dire
Sant’Ottò, tu sei meglio di Eliziario e Delfina: da domani i ceri li accendo solo per te! Sant’Ottò ma mò ascolta a me: tengo a mio figlio che deve trovà lavoro! Sant’Ottò…Sant’Ottone….tu capisci a me e fai quello che devi fare!
L’Irpinia è una terra matriarcale: sono le madri a indirizzare le famiglie, a aiutare i figli nelle scelte e anzi spesso a decidere per loro, sono loro che pregano i Santi e sono sempre loro che fanno i miracoli per tirare a fine mese con le gambe gonfie e il sorriso sulle labbra. E ora, voi forestieri, voi non Irpini, immaginatevi un paese arroccato di case cadute la maggior parte nel 1980 e mal ristrutturate, sentite l’odore dei camini accesi l’inverno, l’unico bar nella strada principale teatro della vita sociale dei pochi rimasti, severo e insindacabile tribunale di chi vale e di chi non vale, di chi conta e chi no.
La maggior parte di chi resta sono anziani o trentenni come me: si perché i Irpinia o nasci vecchio o è il barista che conta le candeline sulla tua torta.
Io un bel giorno, stanco di sentire Giòso che ad ogni caffè mi implorava “Tu che puoi non fare come me“, sono partito su un treno alle due di una notte che era proprio d’inverno per un caso del destino o per un errore del Padreterno: la vita che ci crediate oppure no mi ha riservato poi un ruolo che s’è dimostrato davvero essere più di un lavoro, la mia passione, la mia gioia.
Io sono cresciuto come ogni Irpino cresce, sentendosi dire “mitti la capo appost’, fai silenzio, non sono cose per te, trovati nà fatìc”. Il rapporto fra il ragazzo che diventa uomo e l’Irpinia si forma presto, un binomio di due mondi paralleli che non si trovano mai. Si cresce con l’educazione spartana dei padri che con quell’ampio gesto severo indicano alla fine della corsa della mano e la guancia la giusta direzione da prendere, che è molto più in là di questa terra.
In Irpinia si vive combattendo come partigiani senza reagire, accettando le frasi dei dottoroni – “wuagliò alle prossime elezioni mi candido e ti trovo lu posto”– come connaturati agli uomini per retaggio culturale e sovrastruttura sociale. Si incassa, si va avanti, “che non è c’ama fa ride la gente”, un’espressione tipica per dire che c’è nonostante tutto una dignità da preservare. Sono le nostre madri a volerla questa dignità, i nostri padri a lavorare per poterci permettere di custodirla: diventiamo magistrati, insegnanti, avvocati, tutori della legge, medici, ingegneri, siamo pronti a parlare di tutto con una mentalità aperta che non ha nulla a che vedere con quella con cui siamo cresciuti. Dentro di noi però portiamo il peso degli insegnamenti che il piacere e la libertà sono cose da dottoroni, ci ribelliamo ma difficilmente ce ne liberiamo del tutto non appeni tornati davanti a quel cartello:
Benvenuti ad Ariano Irpino
Noi irpini sono 150 anni che ci collochiamo in giro per la penisola e il mondo e siamo noi stessi il prodotto tipico locale da esportazione: c’è chi è rimasto e chi come me è andato via ma un pezzo del mio cuore è ancora lì, nonostante tutto.