L'Associazione Forense AMB impugna il regolamento per l'accertamento dell'esercizio professionale

di , Lunedì, 13 Giugno 2016

un nota dell'Avvocato Fulvio Pironti Presidente Associazione Forense Nazionale A.M.B.

L’Associazione Forense Nazionale «In difesa dell’Avvocatura medio-bassa», in sigla A.M.B., in persona del suo Presidente nazionale, Avv. Fulvio Pironti, ha impugnato dinnanzi al Tar del Lazio il decreto del Ministro della Giustizia 25 febbraio 2016, n. 47, avente ad oggetto il Regolamento recante disposizioni per l'accertamento dell'esercizio della professione forense chiedendone l’annullamento e la sospensiva. Il ricorso è frutto dell’impegno di un gruppo di studio targato A.M.B. costituito dagli avvocati Fulvio Pironti, Pasqualina Ortu, Antonio Petrongolo, Luis Edmond Dantes, Bruno Mincarini, Giacomo Carnesecchi, Daniele Pagano nonché Umberto Donaggio. Il Direttivo del sodalizio ha designato proprio difensore l’Avv. Pasqualina Ortu.

L’impugnato regolamento introduce una serie di disposizioni volte all’accertamento dell'esercizio forense in forza delle quali potranno rimanere iscritti all'albo soltanto coloro che possiedono i requisiti richiesti dal regolamento sull'esercizio continuativo della professione forense. I requisiti che prestano il fianco a critiche - i quali dovranno essere posseduti contemporaneamente dagli avvocati che intendono continuare ad esercitare al fine di dimostrare l'esercizio «effettivo, continuativo, abituale e prevalente» della professione - sono i seguenti: a) avere l'uso di locali e di almeno un'utenza telefonica destinati allo svolgimento dell'attività professionale; b) aver trattato almeno cinque affari l'anno; c) aver assolto gli obblighi di aggiornamento professionale; d) aver stipulato una polizza assicurativa a copertura della responsabilità civile derivante dall'esercizio della professione.

I requisiti previsti dal regolamento di continuità professionale degli avvocati non hanno alcuna attinenza con la continuità, stabilità, effettività e prevalenza dell’attività professionale di cui all’art. 21, Legge 247/2012, tanto da rendere evidente come la permanenza dell'iscrizione all'albo sia ancorata a requisiti sopratutto patrimoniali e di successo professionale che, con tali modalità di esercizio, nulla hanno a che vedere; ciò rende gravemente lesiva l’autonomia e indipendenza della professione. L’Associazione Forense A.M.B. ha evidenziato le seguenti criticità: 

1) Il decreto impugnato è un regolamento ministeriale, dunque può operare solo in quanto e nei limiti in cui sia a ciò autorizzato dalla legge cui si riferisce e purché non in contrasto con altre disposizioni di rango sovraordinato. 

2) Viola l’art. 33 Cost. che espressamente prevede, tra l’altro, il superamento del solo esame di Stato per l’abilitazione all’esercizio professionale. Ne consegue che il regolamento sulla continuità professionale, prevedendo a pena di cancellazione dall’albo una serie di requisiti per l’esercizio professionale forense è illegittimo per violazione del dettato costituzionale. 

3) Viola il Codice deontologico il quale all’art. 10 vieta che la professione di avvocato sia ristretta o compressa da norme che ne delimitano o, addirittura, ne impediscano l’effettivo esercizio intaccandone libertà e indipendenza. 

4) Viola l’art. 15 della Carta dei diritti fondamentali dell’Europa che garantisce ad ogni individuo «il diritto di lavorare e di esercitare una professione liberamente scelta o accettata» e l’art. 21 della stessa Carta, che vieta «…qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il colore della pelle o l’origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi natura, l’appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio…». 

5) Applica illegittimamente una pseudo censura in spregio ai princìpi di tassatività peculiari delle sanzioni disciplinari laddove all’art. 4 il decreto impugnato prevede che l’avvocato cancellato dall’albo avrà diritto di iscriversi nuovamente, allorché consegua i requisiti, nei casi previsti dall’art. 2, comma 2, lettere a), b), d), f), g) nonché h), mentre nei casi di cui alle lettere c) ed e) non potrà iscriversi se non prima che siano decorsi dodici mesi da quando la delibera di cancellazione è divenuta esecutiva. Tale previsione prescrittiva impedisce al professionista «inadempiente», di poter regolarizzare la propria posizione in tempi brevi una volta sanato il vuoto. La predetta conseguenza, ingiustamente lesiva, configura una vera e propria sanzione che, stante la sua gravità, appare equiparabile a una vera e propria sanzione amministrativa di natura afflittiva cui, pertanto, deve essere riconosciuta natura sostanzialmente penale ai sensi dell’art. 6 CEDU. 

La natura di sanzione afflittiva è, soprattutto, totalmente slegata dalla considerazione di qualsivoglia garanzia di continuità, stabilità, effettività e prevalenza, non solo perché i requisiti previsti dall’impugnato decreto ministeriale sono totalmente irrazionali e inconferenti rispetto alle finalità indicate dagli artt. 1 e 21, L. 247/2012, bensì, per l’assorbente rilievo che, per espressa previsione dell’art. 4, comma 2, d.m. 47/2016, tale «interdizione» annuale alla nuova iscrizione opera anche quando medio tempore l’avvocato espulso abbia maturato i requisiti previsti. Non rientra, tuttavia, nel potere del Ministero della Giustizia emanare sanzioni, per giunta afflittive. 

6) Il regolamento viola il principio di libertà di impresa per l'accesso alle attività economiche e il loro esercizio e, quanto all’esercizio e all’accesso alle professioni, viola il principio secondo cui gli ordinamenti professionali devono garantire che l'esercizio dell'attività risponda senza eccezioni ai princìpi di libera concorrenza, alla presenza diffusa dei professionisti su tutto il territorio nazionale, alla differenziazione e pluralità di offerta che garantisca l'effettiva possibilità di scelta degli utenti nell'àmbito della più ampia informazione relativamente ai servizi offerti.

Nel nostro ordinamento vige il principio di libertà di concorrenza senza eccezioni e il principio di indipendenza e di autonomia del professionista. Mentre i provvedimenti nazionali che subordinano l’accesso ad alcune attività e che, di fatto, ostacolano l’esercizio delle libertà fondamentali riconosciute e tutelate anche dalla comunità internazionale, possono essere tollerati solo se non discriminatori, se giustificati da motivi di interesse pubblico e se idonei a garantire il conseguimento dello scopo perseguito senza andare oltre quanto necessario per il raggiungimento di esso. Nessuno dei requisiti imposti all’Avvocatura appare riconducibile a dette eccezioni. 

7) Appare indubbia, infine, la discriminazione posta in essere a carico e in danno della categoria forense, in spregio ai princìpi costituzionali ed alle norme comunitarie (cfr. Direttiva Cee 2000/78/CE) nelle quali si dispone che laddove gli Stati membri stabiliscano una differenza di trattamento, questa non costituisca discriminazione esclusivamente quando, per la natura di un'attività lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata, tale caratteristica costituisca un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell'attività lavorativa purché la finalità sia legittima e il requisito proporzionato. Di tale proporzione non vi è traccia alcuna nel regolamento impugnato, così come alla stessa stregua sono mancanti tutti i riferimenti alle ragioni per le quali una simile discriminazione risulta esser stata adottata e posta in essere. 

E’ di palese evidenza che il regolamento, così come emanato, è diretto a sopprimere un consistente numero di studi legali e a legittimare la presenza di pochi megastudi. Questi ultimi monopolizzeranno il mercato a discapito dei cittadini i quali avranno diritto ad una difesa solo in virtù del principio del massimo profitto. 

 

 

 

 

 



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