La Corte di Cassazione può pronunciarsi sulla sussistenza del reato di diffamazione?
La Cassazione con sentenza del 4 luglio 2013 n. 28771 si è pronunciata in materia di diffamazione ritenendo che sia necessario valutare l’offensività delle frasi lesive dell’altrui reputazione, in quanto spetta al Giudice verificare la sussistenza o meno della materialità della condotta contestata e, dunque, della reale portata offensiva delle frasi ritenute diffamatorie. Il reato di diffamazione si concretizza qualora venga offesa la reputazione di una persona assente ed è più grave qualora venga commesso a mezzo stampa oppure con altro messo di pubblicità (ad esempio tramite internet o i social). La verità della diffamazione non esclude assolutamente il verificarsi della fattispecie del reato di cui all’art. 595 c.p. Quando si parla di diffamazione bisogna ricordare nel contempo anche l’esistenza del diritto di cronaca e de diritto di critica, esercitabili nella misura in cui l’affermazione sia vera e non venga espressa in modo offensivo. Dunque, risulta necessario porre un bilanciamento dei diritti in questione, ovvero dei contrapposti interessi delle parti. Nel caso di specie una persona veniva chiamata in giudizio in ordine al reato di diffamazione, posto in essere rispondendo ad una email indirizzata a lei e ad altri soggetti. All’imputata, funzionario amministrativo di un Ateneo Universitario, veniva contestato il tenore diffamatorio dell’espressione “E pertanto risulta incomprensibile il contenuto ed il tono della sua comunicazione, del tutto in linea spiace dire, con la condotta e le azioni perpetrate a mio danno dalla Sua persona nell’ultimo periodo”, rivolta al Direttore generale dell’Università e contenuta nella replica ad una pregressa comunicazione ricevuta dallo stesso Direttore generale dell’Ateneo. In primo grado l’imputata veniva condannata in ordine al reato contestato, nonché al risarcimento del danno in favore della parte civile costituita, e la condanna veniva poi confermata anche in grado di Appello avanti al Tribunale. L’imputata propone ricorso per Cassazione avverso la statuizione della corte d’Appello contestando il vizio di violazione di legge in riferimento all’art. 120 c.p. nonché agli artt. 337 e 529 c.p.p., per mancanza della condizione di procedibilità per difetto di querela, avendo la persona offesa spedito la querela a mezzo PEC priva dell’autenticazione della firma. Con il secondo motivo di gravame veniva contestato il vizio di violazione di legge in riferimento agli artt. 51 e 595 c.p. nonchè all’art. 533 c.p.p, al fine di verificare l’insussistenza del reato, in quanto l’imputata si era solo limitata a replicare ad una precedente comunicazione della parte civile, impropria quanto al contenuto ed ai termini utilizzati destinando la propria email agli stessi soggetti a cui era stata indirizzata la comunicazione originaria della parte civile, e con toni e contenuti ritenuti consoni al legittimo esercizio del diritto di critica e di replica. Come ultimo motivo, in maniera subordinata, la ricorrente lamentava il mancato riconoscimento della circostanza attenuante della provocazione. La Corte, ha ritenuto fondati i primi due motivi di gravame e pertanto accoglie il ricorso, effettuando una motivazione sia procedurale che sostanziale. Risulta necessario sottolineare che a fini della validità della querela fosse necessaria l’autenticazione della firma del querelante, poiché la posta elettronica certificata costituisce un veicolo di trasmissione idoneo, alla stregua della mail e del fax che hanno affiancato la modalità di spedizione a mezzo posta, tuttavia il fatto che si tratti di un mezzo di trasmissione certificato non fa venire meno le formalità dell’atto richieste ai sensi dell’art. 337 comma 1 c.p.p. per la validità della querela. Analizzando la questione del sindacato che la Corte può operare sull’offensività delle frasi lesive della reputazione altrui, si precisa che sia compito del giudice valutare la sussistenza o meno della materialità della condotta contestata, nonché la portata offensiva delle frasi ritenute diffamatorie. In questo caso di specie la frase contestata all’imputata si inseriva in un discorso in ambito lavorativo, derivante da una diversa e comunque lecita interpretazione dei compiti svolti dalla funzionaria, sottolineando che le espressioni utilizzate dall’imputata fossero del tutto ragionevoli e non certamente aggressive, irrispettose o inutilmente virulente od acrimoiose. La Corte ha ritenuto di definire in tale senso la posizione dell’imputata, poiché in un contesto lavorativo connotato da legittime e per nulla inusuali divergenze, l’affermazione dell’imputata, in realtà, altro non è che una semplice espressione del diritto di critica e di replica, considerato che la frase proferita non presenta gratuità od offensività e, pertanto, si pone nel pieno rispetto del principio della continenza verbale. La Corte conclude pronunciando l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata perché il fatto non sussiste, con conseguenza revoca delle statuizioni civili. Tale statuizione della Corte ci consente di rilevare la possibilità di poter ricorrere in Cassazione per profili sostanziali e non meramente procedurali, quindi di poter derogare alla funzione nomofilattica della Corte, purchè il sindacato della Corte di legittimità si limiti, appunto a conoscere e valutare l’offensività delle frasi lesive dell’altrui reputazione, verificando la sussistenza o meno della materialità della condotta di diffamazione e la portata concretamente offensiva delle frasi ritenute diffamatorie. Dunque, la valutazione del reato di diffamazione non può prescindere dalla complessa analisi di tutte le circostanze che ruotano intorno al singolo caso di specie, poiché si possono verificare ipotesi, come quest’ultima, in cui anche la magistratura ha ritenuto inizialmente sussistente tale reato, data l’apparente lesione del diritto alla reputazione, sussistenza negata dalla Corte di Cassazione.
A cura dell’Avv. Guerino Gazzella e della Dott.ssa Isabella Urciuoli.
17.07.2023