Non siamo più all’inizio della pandemia che atterrisce il mondo intero. Siamo ormai, volenti o nolenti, giunti ad oltre mezzo anno di esperienza e nelle ultime settimane la famigerata recrudescenza dell’epidemia non ha mancato il suo appuntamento, previsto da tempo.

Cosa è cambiato? Dov’è finito il “Ce la faremo!” dello scorso Marzo? “Tutto questo ci renderà più uniti! E saremo tutti più buoni!”: si diceva!

Nello scorrere la home di un qualsiasi social è facile imbattersi in meme e post ironici proprio su questi ricordi recenti, se va bene. Eh già! Perché il vero cambiamento è avvenuto nelle reazioni di tutti noi da allora ad oggi!

 

Prima di tutto i fallimenti nelle strategie adottate dallo Stato e dalle istituzioni. Inutile negarlo, basta riprendere ciò che già in tanti hanno fatto notare: a partire dalla riapertura estiva, la strana pantomima sulla scuole, per poi finire ai mancati incrementi della medicina locale necessaria ad un tracciamento adeguato. Queste scelte sono la prima ed evidente mancata reazione al virus che dovevamo affrontare, da parte di chi doveva decidere. Basterebbe questo per chiedersi se in fondo quel “cambierà tutto” non fosse più che altro una bella frase, accompagnata però dalla profonda necessità di ritornare esattamente al “tutto com’era”.

 La seconda reazione, più evidente e pratica, si è concretizzata in proteste sparse di commercianti in crisi, istituzioni artistiche in difficoltà e cittadini arrabbiati. Basti osservare, senza andare troppo lontano, a quelle aree cittadine che sono costrette a guardare il proprio ospedale depauperato e smantellato, per colpa delle negligenze e dei mancati investimenti della regione e dello stato. Come se a partire da oggi in poi il resto delle malattie si fermasse per dare priorità al Covid-19.

 Non si può che dare ragione a tutte queste categorie tanto colpite, sottolineando, però, l’evidente follia della violenza inutile, lo sfogo insensato e le manifestazioni senza nessun riguardo per le misure anti-Covid, che sono un pesante autogol per chi voglia farsi ascoltare. Se si pensa poi a coloro che dovrebbero essere la loro voce, anche all’interno del Parlamento, non si può che essere solidali.

 Ci sarebbe, poi, la terza reazione, quella dei negazionisti per i quali, però, non si può che chiedere un minuto di silenzio e basta. Purtroppo non si può dialogare razionalmente con chi è irragionevole.

L’articolo di oggi intende però, presentarsi in una posizione forse inedita ai più e porre la questioni in termini differenti. Reagire vuol dire davvero cambiare? Cosa avremmo dovuto aspettarci di diverso? Quale prospettiva ci aspetta nella realtà?

 La differenza tra oggi e marzo, a ben pensarci, è data solo da una maggiore consapevolezza di cosa sia il virus. Tra tutti gli attori in campo, infatti, l’unica a non mancare mai il suo compito è stata la scienza! La conoscenza tecnica muovendosi, come sempre, a scoprire che cosaè ciò che studia e come funzioni, così da poterla dominare e cambiare, anche nel caso del coronavirus opera così.

Ne deriva che ciò che doveva cambiare ha a che fare con la politica, l’economia, i rapporti sociali e le domande esistenziali. Riguardava il come usare le conoscenze tecniche e l’analisi di quale fosse il contesto in cui questa pandemia è entrata. Nella riflessione comune ci si aspettava un’unità maggiore tra le persone, data dall’esperienza di massa della paura e del lockdown, immediatamente, però, smentita dalle attuali sommosse e dalle idee estremiste in circolazione. Il paradosso infatti, è che lo spaesamento iniziale ha lasciato spazio ad una pseudo-consapevolezza, che non ha fatto altro che cristallizzare e irrigidire rapporti di forze già esistenti. La conseguenza è una guerra nel tentativo di mantenere il proprio stato di cose, la propria posizione economica e sociale e ciò è valido sia per il singolo individuo che nei rapporti tra gli Stati.

Il vero assente, insomma, che non ha ancora permesso un vero cambiamento, è il riflettere in modo più ampio e con uno sguardo più lungo.  Non si fa che guardare all’immediato. In fondo tutti ci siamo uniti, è vero, ma solo perché non cambiasse assolutamente nulla!

Ad essere colpita dal virus non è solo la salute ma l’economia, o meglio l’economia occidentale, ed è proprio lei quello stato di cose a cui tentiamo di tornare.

“Un economia che non riesce a reggere per due mesi di chiusura è una economia fragile” ha, però, dichiarato recentemente il filosofo Umberto Galimberti in un’intervista. Anni fa i nostri antenati affrontavano carestie e pestilenze senza che se ne risentisse, ragion per cui il problema degli stati occidentali è di carattere sistemico. Si è posto il denaro come scopo di ogni vita. Un’economia basata sullo sviluppo tecnologico mirato al profitto è destinata a fallire. Per quanto riguarda il singolo poi, concludeva Galimberti, l’effetto a cascata è evidente. La mancanza di prospettiva si traduce in ciò che Nietzsche chiamava “l’ospite inquietante” del nichilismo, che tradotto si potrebbe dire pessimismo.

Le vere vittime storiche di questa pandemia infatti, rischiano di essere i giovani. Senza un vero cambiamento, ad essi è tolta ogni speranza, ogni scopo ed ogni ragione per tentare di averlo.

Ci si sta muovendo nel tentativo di salvare il salvabile e chi protesta non fa che chiedere esattamente la stessa cosa. Manca, però, chi si occupi di spiegare il perché sta avvenendo tutto questo. Non c’è chi possa dare i giusti strumenti educativi affinché, oltre a sapere che cos’è il coronavirus, i giovani sappiano domandarsi il senso di dover affrontare un futuro nero.

Il coronavirus, visto in una prospettiva differente, è un’opportunità per approfondire come sono fatte le società occidentali e che tipo di rapporti si è inteso creare. Forse si constaterebbe di aver sbagliato a porre l’economia come paradigma della vita. La lotta tra lavoro e salute è la conseguenza più evidente dell’inconsistenza delle risposte politiche ed esistenziali cui l’uomo è giunto.

In fondo tutto ciò avrebbe potuto, e potrebbe porre ancora, l’occidente di fronte alla domanda più profonda riguardo lo stesso scopo che si è dato nel denaro e ai motivi per cui cercare di sopravvivere ad un virus. Questo aprirebbe la prospettiva di futuri migliori e orizzonti di senso di ampio respiro.

Se davvero si vuole cambiare insomma, non basta sapere come funziona una pandemia e reagire difendendo la posizione apparentemente più giusta, ma richiede di porsi la domanda sul senso del nostro essere al mondo e sul perchéabbiamo scelto di essere così come siamo.