tratto dal blog lacod@delgatto di Luigi Gagliardi
Mi hanno chiesto da quale luogo d’Italia io arrivassi ed io tra timore e vigore, alzandomi, vincendo il timore di chi sa d’essere uno sconosciuto, con un sospiro e a petto gonfio “Sono di Ariano” e allora già basterebbe per non essere generici ed iniziare e chiudere il discorso che seguiva quella domanda. Ma poi ho continuato “Io sono di Ariano. Ariano Irpino. Provincia di Avellino. Sono irpino.” E allora la seconda domanda: “Irpino? Ariano?”. Solo allora non ho saputo come proseguire. Perchè essere Irpini non è essere legati alla geografia di una sola città o di una regione intera, un po’ come dire “Sono romano, milanese, siciliano”.
Essere Irpini è più di un luogo: è un modo di essere quel luogo, essere in quel luogo, un essere di quel luogo. Io poi sono Arianese e di tutte le contraddizioni Ariano e l’essere Arianese ne sono la madre e la figlia.
Il mio paese è una signora elegante la sera di Natale che cammina per Piazza, che ti guarda fin quando non sia tu a salutarla per primo, che non ti abbraccia non perché non vuole essere amica e familiare ma perché non vuole rovinare i vaporosi boccoli castani appena pettinati.
Ariano è come un cane, magro, infangato, che se ne sta lì vigile a fare la guardia, abbaiando verso chi vuole portare innovazione, a difesa dei dottoroni, degli avvocatoni e dei soli nomi noti della politica n’coppa lu Comune. Appena può poi torna a dormire raggomitolato per il freddo, dando le scapole ossute alla Puglia e la coda al napoletano, a chiudersi in se stesso per non essere assoggettato né da ponente nè da levante.
Il mio paese è come le sue strade, una metafora di vita: se vuoi arrivare in alto, ai palazzi che contano devi salire, devi percorrere le strade ripide e, una volta arrivati su al Calvario, voltarti e capire che in fondo eri in discesa ma che tanta fatica ti ha fatto crescere più forte.Ariano poi è tutte le altre strade, che finanche la voce del navigatore si morde la lingua per le buche che ci sono. Ariano è le sue finestre, che affacciano sulle piazze lastricate, sulle ampie vedute che perdi lo sguardo fino alle montagne del Sannio ma è anche la gente ciarliera che vi si nasconde dietro: tutti sanno di tutti per tutto ma, una volta aperte quelle persiane, siamo capaci con grande attoricità a sfornare maraviglia per la gravidanza non voluta di quella e per il fallimento di quell’altro.
Il mio Paese è il suo Castello: davanti cadente ma fiero quasi a voler reclamare come un partigiano sul Carso “io resto qui, stanco, ferito ma non mi muovo”, dietro ricostruito che nemmeno mio nipote con tutte le sue Lego, tant’è che il povero Federico ribolle e bestemmia nella tomba.
Ariano sono le luci alle sei del pomeriggio in inverno che s’accendono tutt’intorno: ci sono grumi di case, contrade e fossi che messi insieme non fanno la massa di mocciosi il sabato sera stipati nei locali ai Pasteni.
Ariano è gli Arianesi che li manderesti davvero a quel paese, per quanto sono farisei, e un pò ci sorridi, perché sono i tuoi amici così come tutte le persone che conosco da quando ero alto quanto le fontanelle della Villa.
Ariano è il buon vecchio Cefali che ogni mattina, come quando era il mio maestro alle elementari, percorre la salita di casa mia, fischiettando “rose rosse per te” e salutando tutti con quella sua grande mano morbida e severa.
Ariano altro che Facebook: noi siamo arrivati molto prima. Il mio Paese sono le palle raccontate al Bar Irpinia, è il rumore delle tazzine da Dany alle due del pomeriggio, sono le signore in attesa da Renzo Grasso che una confidenza tra due diventa un racconto di tutti, è la signora dell’Eden che ogni cosa le dica per lei è sempre “bene”, sono i miei amici ex capelloni che ora te li trovi seduti in macchina mentre fuori la nuova generazione vestita tutta uguale canzona noi vecchi, è il benzinaio che ti fa il pieno e con te sospira quasi a condividere lo spred e la crisi ma intanto con un sorriso ti da una passata ai vetri, sono i parcheggi, quei casermoni sottoterra che poi tutti si mettono un po’ dove vogliono fuori l’ufficio postale, è il traffico di Cardito alle sette di sera che fa tanto metropoli, sono le contrade che cammina cammina e non sai né dove arriverai né dove ti trovi e vai a finire che sbuchi a Benevento, è il pane appena sfornato con la mollica bianca che parti per la domenica al mare e morso/morso a Montaguto è già finito, sono gli uomini coi loro cappotti di trapuntina verde che la sera camminano da Piazza Ferrara fino al Museo, che ormai son vecchi e far la salita fino a Piazza è diventato faticoso.
Il mio paese è come il mio barbiere: è da sessant’anni che è sempre lì nel suo salone e ogni santa mattina si da un colpo di pettine preciso a sinistra e uno a destra ai suoi capelli grigi ma curati, si guarda nello specchio, preme una ruga ma ammicca e si compiace, continuando a tagliare sempre alla stessa maniera nonostante le mode, le creste, la gelatina e noi bambini della Guardia ormai cresciuti.
Ariano ha sinonimi e contrari tutti suoi ma per me il suo significato è casa, nel senso più stretto e caldo che ognuno di noi può dare a questa parola, un po’ come tirar fuori dalla zaino a Pasquetta in mezzo a un prato “il pane con la frittata”.
Ariano sono le mie radici, quelle a cui a lungo ho fatto finta di non appartenere, perchè volevo essere di chissà quale città, prima di ritornare ancora, ogni volta.