riceviamo e pubblichiamo una nota di Floriana Mastandrea

Sento il dovere morale di ringraziare calorosamente tutti i miei elettori e di tentare anche un po’ di consolarli del risultato generale, sebbene non sia facile. Sono stata la donna più votata di entrambe le liste a sostegno di Giovanni La Vita sindaco. E questo, nonostante ad Ariano sia tornata in pianta stabile soltanto da un paio d’anni. È un segnale indicativo che ci sono ancora persone che votano chi si impegna, presenta un progetto per la città, ci mette passione, esperienza di vita e competenza. È un segnale della volontà di cambiamento delle persone stufe sia dei vecchi metodi sia dei vecchi amministratori inconcludenti. È il segnale che una parte della popolazione vuole dare una speranza ad Ariano e non rimanere inerte a lamentarsi del declino, continuando a votare quelle stesse classi dirigenti che l’hanno portata al degrado.

Purtroppo i nostri 5.251 voti, tra cui i miei 187, guadagnati uno per uno, non sono stati sufficienti: peraltro dovevano essere di più, se tanti non avessero “spaccato”, candidando nelle liste figli, nipoti, cognati, fratelli, sorelle, e genealogia familiare varia, proprio per racimolare voti sparsi. Questo è accaduto, malauguratamente, anche nello stesso centrosinistra, quello che avrebbe dovuto presentarsi unito e invece, ancora una volta, grazie ai protagonismi personali, è andato al voto diviso e ancora una volta, inesorabilmente ha perso. Quella parte dei socialisti e del Pd, che voleva a tutti costi l’alleanza con la destra e ci ha costretti a formare un’autonoma coalizione di centrosinistra (Ariano Bene Comune), ora, dati i risultati, dovrebbe seguire la strada delle dimissioni e consentire di prendere le redini a un nuovo e più lungimirante ceto politico. Il centrosinistra arianese ha mancato una magnifica occasione e non certo per colpa nostra, che ne abbiamo voluto difendere strenuamente i valori e gli ideali.

Noi crediamo ancora nella possibilità di costruire una società diversa, basata sui diritti, sulla legalità, sull’equità, sull’uguaglianza, sulla difesa dei più deboli, sulla cultura, insomma, crediamo in una società più equa e continueremo a farlo. L’idealità, come la morale, è diventata però merce assai rara e per questo, più preziosa. In questa anomala campagna elettorale, parlando con le molte persone incontrate e spiegando il programma, che in realtà è stato sempre condiviso, mi sono sentita rispondere le cose più strane. Un mio amico, che sapevo essere sulla mia stessa linea politica, mi ha detto amareggiato che non condivideva la candidatura della sorella in un partito di destra, ma era “costretto” a votarla! Un altro, che non vedevo da tempo, alla fine di un comizio, incontrato per caso, è venuto ad abbracciarmi e complimentarsi per “l’ottimo lavoro, ma non posso votarti perché ho un problema, mia sorella mi ha inguaiato, si è candidata in tutt’altro schieramento”, ha aggiunto rammaricato. Un caro amico politico, sempre di sinistra, ha avuto la nipote a sbarrargli la strada. Altri ancora, mogli, fratelli, figli e così via, nei partiti più disparati, spesso non condivisi. Alcuni conoscenti mi hanno riferito che per protesta non avrebbero voluto recarsi alle urne, ma avrebbero poi ceduto, poiché il candidato che a suo tempo li aveva “aiutati”, gliel’aveva imposto. Molti avevano il voto “impegnato”, ma siccome non volevano “scontentare nessuno”, avrebbero cercato di racimolare qualcosa, forse un voto, anche per la mia lista. Un’imprenditrice mi ha risposto che non poteva garantirmi nulla in quanto aveva clienti di centro, destra e sinistra. Una commerciante mi ha rivelato che avrebbe votato il sindaco, ma non i consiglieri, poiché aveva il figlio candidato nel partito opposto, che non condivideva, ma si trattava pur sempre del figlio. Un paio di suoi clienti presenti, coralmente rivelavano di avere la stessa situazione. Soltanto un padre, con la figlia candidata in uno schieramento non condiviso, ha avuto il coraggio di essere coerente con le sue idee politiche e dirle che non l’avrebbe votata. Un giovane commerciante mi ha detto che non poteva esimersi dal votare per colui che gli aveva affittato il negozio, in una sorta di devozione, come se pagare regolarmente l’affitto non fosse stato di per sé sufficiente! Una vedova, con aria dispiaciuta, mi ha rivelato di non poter fare a meno di votare per il tale sindaco di uno degli schieramenti poiché alla morte del marito le aveva risolto il problema di trovare un loculo: in una società normale sarebbe stato un suo diritto sacrosanto. In questo scenario kafkiano, ho chiesto dove fosse l’idealità, e nessuno ha saputo darmi una risposta adeguata, se non quella della necessità di adempiere a un dovere di parentela o a un obbligo di sdebitarsi. Ecco a cosa è ridotto, ciò che dovrebbe essere l’esercizio etico di rappresentazione degli interessi di una comunità, la politica: a una costrizione, anche quando non c’è condivisione ideale e questo, ben lo sanno i marpioni che organizzano le liste.

Francesco De Sanctis, letterato di spicco, scrittore, politico, eseguì in Irpinia un desolante Viaggio elettorale che riportò fedelmente in un libro. Constatò come l’ignoranza, l’indifferenza verso la politica, la distanza del popolo dalla stessa e il voto di scambio per un piatto di lenticchie, prevalessero su ogni altra logica. Era il 1875: oggi è forse cambiato qualcosa? È passato quasi un secolo e mezzo da allora, eppure tutto è rimasto gattopardescamente uguale: quando la gente prenderà coscienza di doversi ribellare ad atavici meccanismi costrittivi? Quando diventerà libera di scegliere in base alle competenze di chi la deve rappresentare? Quando si formerà una coscienza sia civica sia politica, che la renderà capace di scegliere per il bene della comunità e non per ricambiare un “favore”, che in una società normale e civile, dovrebbe essere un diritto per tutti e non privilegio di pochi? Possono le varie dominazioni subite nei secoli, averne fiaccato il DNA? Eppure il nostro, è stato capace di impeti degni di un popolo fiero! Indignarsi non basta, serve una rivoluzione, e forse non solo culturale. Solo quando il Sud si emanciperà dall’asservimento potrà crescere, perché avrà investito sui suoi “figli migliori”, per dirla col grande meridionalista Guido Dorso e potrà finalmente uscire dalla frustrazione della sudditanza e dell’umiliazione, per conquistare la dignità di un popolo libero. Altrimenti sarà spacciato per sempre. Noi portiamo avanti la dura battaglia di una più ampia guerra, vogliamo ricostruire per guarire una società malata, ma ognuno deve fare la sua parte. Se non ora, quando?




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